Se non puoi batterlo, mettilo in vendita: sarà probabilmente questo uno dei motti che passeranno alla storia e resteranno della nostra epoca. Negli ultimi dieci anni il femminismo è diventato di moda nel marketing: la narrazione nelle pubblicità rivolte alle donne si è rapidamente appropriata del linguaggio del femminismo della quarta ondata. La richiesta di una maggiore rappresentazione delle minoranze e di corpi non conformi agli standard di bellezza canonici è stata raccolta dai brand di lusso e di cosmetici, che si sono accorti del potenziale mercato che stavano ignorando. 

Con l’8 marzo, la storia parte però ben prima dello scorso decennio. Quando esattamente si comincia a parlare di “festa della donna”, invece che di Giornata internazionale della donna (o dei diritti delle donne, nella sua dicitura più completa)? 

Probabilmente il 1975, anno definito dalle Nazioni Unite come Anno internazionale delle donne, fa da spartiacque, accendendo i riflettori su una manifestazione che fino a quel momento era un momento delle femministe. È negli anni ‘80 però che la Giornata della Donna diventa sempre di più proposta come una “Festa”, una giornata in cui le donne devono essere viziate e coccolate e in cui si possono “giustificare” certi eccessi.

Nel tempo quindi sempre più ristoranti propongono cene ed eventi a tema “donne”, con un tripudio di mimose e piatti gialli o rosa, mentre i locali notturni cominciano a offrire spogliarelli maschili e serate per sole signore, come se l’8 marzo fosse una giornata di trasgressione. E spesso le pubblicità invitano addirittura a ringraziare i propri partner perché magnanimi ad occuparsi dei figli o a “lascia uscire” per una sera queste donne. Bontà loro. 

E adesso, il gelato. Ora, che tre gelaterie propongano l’ennesima iniziativa per mercificare l’8 marzo non sorprende nessuno. Al massimo, fa strano che non appaia la mimosa da nessuna parte. 

La questione è il ruolo delle istituzioni che si rendono ideatori e promotori di iniziative come questa, che non solo offendono le donne, ma dimostrano quanto le forze politiche non siano in grado di rispondere alle necessità delle loro cittadine. 

Da Regione Liguria, per esempio, ci aspettiamo proposte concrete per incentivare il lavoro femminile

L’ISTAT sta parlando di 11.000 donne nella nostra Regione con un contratto a tempo indeterminato che nel corso del 2023 – solo dell’ultimo anno – hanno dato volontariamente le dimissioni, una cospicua percentuale di loro per l’impossibilità di conciliare l’impiego e la vita privata. L’INPS ribatte segnalando che in Liguria rimane importante nel settore privato il gender pay gap.

La questione degli asili nido – malgrado i voucher – rimane: pur essendo la Liguria tra le regioni più virtuose d’Europa, con il 34% dei posti nido garantiti, ciò vuol comunque dire che due bambini su tre non possono accedere al servizio. E oltre alla questione della maternità, sulle donne ricade anche buona parte del lavoro di cura di genitori, suoceri e altri parenti, visto che la Liguria è stata certificata recentemente la Regione più anziana d’Europa. 

Una situazione che non migliorerà gustandosi un gelato e “riflettendoci su”. 

Il Comune di Genova e la giornata delle donne alternativa

Tra una coppetta di gelato e l’altra, la maggioranza del consiglio comunale ha provato a istituire una seconda giornata approfittando dell’anniversario della convenzione dei diritti della donna in Europa (il 12 marzo).

Un’iniziativa che ricorda molto quanto fatto con il 25 aprile e la “festa della bandiera”, per creare un momento meno divisivo. Il fatto che l’8 marzo abbia le sue radici nelle lotte delle lavoratrici di tutto il mondo non rende questa giornata divisiva: tutti dovrebbero avere interesse che le donne possano lavorare, guadagnare in maniera dignitosa ed essere economicamente indipendenti. È una questione di diritti e di dignità ma sarebbe anche un importante boost per l’economia ligure e nazionale. 

Ma anche in questo caso, ci chiediamo, perché c’è l’urgenza di una giornata alternativa? Perché invece di concentrarsi su simboli e nomi non si lavora sul vero problema? 

Riprendiamoci le mimose

Nel Dopoguerra Teresa Mattei ha proposto la mimosa come simbolo dell’8 marzo perché fiore “povero” e facilmente reperibile, oltre che facilmente riconoscibile. 

Oggi i simboli vengono trasformati e deformati per mantenere la protesta delle donne sul piano delle immagini e sulle iniziative senza peso politico.

Chiediamo a tutte le parti politiche di chiedersi cosa voglia dire per loro l’8 marzo, perché se le proposte della maggioranza non sono ricevibili, nemmeno dall’opposizione sono arrivate particolarmente edificanti. 

Il 51,9% della popolazione ligure è di genere femminile, pretendiamo di essere trattate con la dignità e il rispetto che meritiamo.

E in tal senso, come associazione attiva per i diritti delle donne dal 1945, non vogliamo dare addosso alle compagne che decidono di prendersi l’8 marzo come una serata di svago tra amiche, ma invitiamo comunque tutte a interrogarsi sul significato di questa giornata. Tutte le donne di Genova sono invitate a dialogare con noi e a immaginare una società migliore per ognuna di noi.