Negli ultimi giorni abbiamo assistito con sgomento e indignazione al circo mediatico che si è sviluppato intorno alla vicenda del piccolo E. Ossia, il bambino affidato alla culla per la vita della clinica Mangiagalli di Milano e alla madre biologica che ha deciso di separarsi dal neonato dopo una settimana dal parto. 

Madre che è stata lesa per giorni e giorni nei suoi diritti di privacy e di donna

Il messaggio che ha lasciato con il piccolo è stato reso pubblico e vivisezionato per capire le motivazioni della rinuncia, per giudicarla ed etichettarla. È stato stabilito che la donna fosse in ristrettezze economiche su un’interpretazione semantica delle parole utilizzate. E hanno seguito diversi appelli dai toni sempre più paternalistici e surreali per convincere la donna a cambiare idea e tornare sui suoi passi.

Al punto da trovare personaggi televisivi a tracciare discriminazioni tra madri “vere” e “altre che si trovano lì a occuparsi dei figli degli altri”. Un’uscita infelice ma reiterata nelle scuse seguite alle polemiche, a squalificare e invalidare tutto il sistema delle adozioni.

Si è offerto aiuto economico, ma non è stato ovviamente definito per quanto tempo e in che termini

È abbastanza inquietante pensare che si chieda a una donna di farsi avanti promettendo denaro. In particolare in questo momento storico, sapendo quanto effettivamente incida a livello economico la cura di un figlio. Per quanto l’aiuto promesso verrebbe sostenuto? Cinicamente, viene da pensare fino alla successiva storia mediatica. E poi che succede?

Inoltre, per quanto la catena di solidarietà possa apparire encomiabile, è abbastanza demoralizzante vedere come ancora una volta una donna sia stata ritenuta incapace di fare una scelta per sé e per il bambino. Il carosello mediatico che si è creato ha rafforzato gli stereotipi che da sempre circondano la figura della donna. Inoltre, ha reso pubbliche informazioni sensibili che hanno messo a rischio l’anonimato della madre, invitando di fatto alla caccia alle streghe. 

L’anonimato di una donna che decide di rinunciare al suo ruolo di genitore deve essere sempre tutelato, quali che siano i motivi e la storia che l’hanno portata a questa decisione. Motivi che devono rimanere privati e insindacabili, a prescindere da quali essi siano.

Non ci deve essere moralismo quando si parla di donne che non vogliono o non possono essere madri

Ancora una volta la retorica si è concentrata sul dolore e la sofferenza che sicuramente una tale scelta porta, dando per certa la ristrettezza economica della donna, come se fosse l’unica possibilità “accettabile” per rinunciare a un figlio. Ma il giudizio morale è inutile e dannoso.

Sarebbe un buon risultato motivare una donna a rinunciare all’affido e a riprendere il piccolo per senso di colpa? Quali premesse affronterebbe questa famiglia, si potrebbe garantire un futuro sano e sereno per madre e figlio?

Il rischio piuttosto è disincentivare le donne che si trovano a prendere questa decisione a seguire i canali più sicuri per l’affido, abbandonando piuttosto il neonato in situazioni di pericolo. 

Ricordiamo inoltre che queste “culle per la vita” sono una traduzione moderna della ruota degli esposti, ma si dovrebbe contribuire a una maggiore conoscenza del DPR 296/2000, la legge che permette a una donna di rinunciare alla maternità con un parto anonimo, affidando il neonato al personale ospedaliero che attiverà le procedure con il Tribunale dei minori. 

La punta dell’iceberg del problema natalità in Italia

Proprio in questi giorni l’Istat ha pubblicato un rapporto sulla natalità del Paese registrando che, per la prima volta nella storia nazionale, si sono registrati meno di 400.000 nuovi nati (per la precisione 393.000). 

La notizia deve essere presa sul serio, attivando politiche e incentivi a sostegno delle famiglie per tutto il sistema Paese, senza discriminazioni regionali. Cercare di “correggere” il singolo caso di rinuncia alla maternità senza affrontare in maniera sistemica la solitudine di madri e famiglie e i problemi sociali, economici, relazionali e lavorativi che molte donne e molte coppie affrontano al giorno d’oggi è grottesco e inutile.

Piuttosto che portare avanti un simile accanimento sul singolo caso, ci sono diverse domande che le istituzioni politiche e gli enti sanitari dovrebbero porsi:

  • Le donne italiane sono informate sul DPR 396/2000, su come è possibile partorire in anonimato nella sicurezza di una struttura ospedaliera senza conseguenze legali?
  • E le donne straniere, in particolare quelle che provengono da paesi dove l’aborto e l’abbandono sono fortemente perseguiti? Quale lavoro viene portato avanti con le comunità di immigrati sul territorio per favorire la conoscenza dei diritti delle donne?
  • Quali strumenti di sostegno per le madri sono messi oggi in campo per tutelare il loro posto di lavoro e la loro indipendenza economica?
  • Quali servizi sono offerti alle famiglie? Quanto sono accessibili?
  • Come sono tutelate le madri e i bambini vittime di violenza domestica? 
  • Quale assistenza psicologica e sociale si offre alle donne vittima di violenza domestica e sessuale?
  • Quali supporti sono proposti su tutto il territorio italiano a sostegno delle famiglie con soggetti disabili o anziani bisognosi di cure? Sono seguite o il peso dell’assistenza ricade sulle donne?

Questi sono i temi su cui tutti gli enti, a partire dal governo a scendere, devono interrogarsi. Colpevolizzare le nuove generazioni perché hanno meno figli o decidono di non averne proprio è inutile. Non si può pretendere che si facciano bambini “per il bene della patria”, come un sacrificio per il bene comune. Le coppie, e in particolare le donne, devono poter vivere la decisione di avere dei figli come una scelta consapevole e desiderata. Devono poter offrire un contesto sereno, sano ed economicamente stabile ai figli e, nel caso in cui ciò non sia possibile, devono essere aiutate a cambiare tale situazione.

Come associazione UDI chiede interventi sistemici e una nuova visione della natalità e della genitorialità, dove genitore è chi sceglie di occuparsi responsabilmente di un figlio, a prescindere dal legame biologico, e dove si lavori perché sempre più famiglie possano accogliere dei nuovi bambini con gioia e serenità, anziché con senso di colpa o timore per il futuro.