Ieri mattina le nostre volontarie su invito del Circuito Cinema Genova hanno introdotto alle classi del Liceo Scientifico Colombo la visione del film Le regine del campo, un film francese del 2020. Il film è stata l’occasione per parlare di donne e sport e domandare agli studenti: è un gioco da ragazze?

La trama

che parla di un gruppo di donne che scende in campo per salvare la squadra locale, una vera istituzione, da una inevitabile retrocessione. Alla squadra manca infatti un solo punto per salvarsi, ma a tre partite dalla fine del campionato tutti i giocatori vengono squalificati per aver scatenato una rissa in campo. 

Causa penuria di uomini disponibili a sostituire gli squalificati, all’allenatore Marco (Kad Merad, Giù al nord, Il piccolo Nicolas e i suoi genitori) tocca coinvolgere le donne della società per finire la stagione. Ecco che giocano le mogli e le fidanzate, di norma relegate al tifo, a lavare le divise e a occuparsi di casa e bambini. Con reazioni violente da parte dei mariti, quegli stessi giocatori squalificati, che preferirebbero accettare la retrocessione a tavolino piuttosto che essere “svergognati” dalle donne.

Le regine del campo, il cast del film

Il film è stato un’occasione per parlare di sport, donne ed emancipazione. Le nostre volontarie sono partite dalla storia e dallo scopo di UDI, con particolare riferimento alle lotte di oggi. Autodeterminazione, equa partecipazione, eliminazione delle disparità salariali, tutela dei diritti conquistati e costruzione di una società equa per tutti, uomini e donne.

Tutti temi che si intrecciano bene con il calcio e più in senso lato lo sport femminile

Se nel nostro Paese il calcio è considerabile come una religione, sappiamo che è un culto che molti vorrebbero con officianti esclusivamente uomini. Il calcio femminile, da sempre snobbato e considerato un “campionato da oratorio”, è salito alla ribalta quando le azzurre hanno centrato la qualificazione per il campionato mondiale 2019. La notizia ha fatto scalpore perché nello stesso periodo in cui invece i colleghi uomini hanno mancato l’obiettivo nel 2018. La situazione ha portato molti a seguire i mondiali femminili (per la prima volta trasmessi in chiaro sulle reti principali RAI)… Anche se in molti casi solo per commentare e dimostrare l’inferiorità delle calciatrici.

Non è un caso se la retorica di questo imminente Campionato Europeo maschile (#Euro2020, che aprirà venerdì con Italia-Turchia) parla di riscatto in toni quasi ossessivi, come a recuperare la faccia persa non solo per essere rimasti fuori dalla precedente competizione internazionale, ma per essere stati “battuti dalle femmine”.

Nel mentre, nei Paesi Bassi poche settimane fa è stato annunciato un esperimento ad aprire la categoria A dilettanti over 18 alla partecipazione delle donne in squadre miste. Un’iniziativa che segue il caso singolo dell’anno scorso di Ellen Fokkema, che aveva avuto l’autorizzazione a continuare a giocare con i suoi compagni dopo essere riusciti a passare dalla categoria B a quella superiore. La notizia aveva destato scalpore e scatenato i commenti più triviali. 

È lampante infatti come nell’immaginario le donne, anche le atlete, rimangano purtroppo delicati fiorellini che non potrebbero reggere lo scontro con i colleghi uomini. 

Tutte le donne che contrastano con questa idea sono attaccabili e pericolose. 

Basta vedere come le atlete, non solo le calciatrici, siano contestate di non essere abbastanza femminili in campo, o di essere troppo muscolose, o di non rispondere a un’immagine attraente e sensuale posta in campo o in pista non per gareggiare ma per compiacere il male gaze, quello sguardo oggettificante per cui una donna deve essere prima piacevole da vedere e poi – se proprio – competente.

È successo a Serena Williams, è successo a tutte le calciatrici italiane “ree” di non essere truccate in campo, e succede continuamente in tutti gli sport. Pensare alla lega femminile di baseball degli anni ’40 raccontata in Ragazze vincenti, dove le giocatrici per scendere in campo dovevano obbligatoriamente mettere il rossetto, portare i capelli lunghi e frequentare un corso di etichetta e portamento, è un attimo. 

Peggio ancora quando le donne scelgono quanto mostrare del loro corpo

Recentemente, la ginnasta tedesca Sarah Voss ha fatto scalpore per essersi presentata agli Europei 2021 con una tuta unica a coprire le gambe anziché il solito body inguinale. L’atleta ha preso apertamente posizione dicendo di aver scelto di non volersi preoccupare di quanta pelle avesse scoperta mentre volteggia in aria e di foto e riprese eccessivamente zoomate sulle sue parti intime (per altro, il body viene “incollato” al sedere con degli spray appositi – se si sposta durante gli esercizi, si incorre anche in penalità). La sessualizzazione delle ginnaste è un tema molto sentito dopo la condanna di Larry Nassar per abusi sessuali e molestie su almeno 500 atlete statunitensi, tra cui la pluricampionessa olimpica Simon Biles. 

Il caso di dimensioni immense sta spingendo negli ultimi anni tantissime ginnaste di tutto il mondo – che cominciano ad allenarsi da giovanissime – a denunciare abusi sessuali e metodi di allenamento molto vicini alla tortura. Uno scossone di cui ancora non si vede la fine.

Non dovrebbe sorprendere dunque se in un contesto del genere diverse atlete abbiano deciso di optare per una divisa che le esponga meno a sguardi non appropriati di allenatori, tecnici e spettatori. La reazione pubblica ovviamente ha gridato allo scandalo, giustificando l’indignazione a una preoccupazione che le atlete siano meno performanti (NB gli uomini si esibiscono con un pantaloncino lungo e largo o con i pantaloni lunghi, a seconda dell’attrezzo, eppure ciò sembra non inficiare le loro prove), ma la motivazione è l’essersi nascoste al male gaze.

Quando leggiamo una critica del genere, la dobbiamo interpretare in un solo modo.

“Come osa questa ragazza decidere quanto far vedere del suo corpo al posto mio?” È questo che disturba.

Una storia vecchia e che spesso ha anche risvolti ideologici, se sono coinvolte atlete di paesi a maggioranza musulmana. Alle Olimpiadi di Rio 2016, montò la polemica per la divisa della nazionale femminile di beach volley egiziana. Le due atlete scesero in campo con il burkini, in contrasto con le microdivise di molte delle nazionali occidentali. Se fate caso, si vedono quasi sempre solo le foto di una delle due giocatrici, quella con l’hijab.

La sua compagna di squadra, che giocava a testa scoperta, viene spesso dimenticata, nel gridare allo scandalo della “morte del beach volley”. A quanto pare, infatti, le atlete di questa disciplina non sono lì a gareggiare per loro stesse o per vincere, ma per eccitare gli spettatori. Lo dimostrano le ripetitive e dilungate riprese sui sederi delle giocatrici. La scusa è inquadrare i segnali tra compagne di squadra… che tanto il pubblico non sa interpretare. 

In questo caso però passò sotto silenzio la nazionale olandese, che per pura praticità adottò i pantaloni lunghi (la sabbia nelle parti intime non piace a nessuna, diciamolo). Tuttavia, non essendoci una motivazione religiosa/culturale da incriminare, questa scelta fu del tutto ignorata. 

Ne ha parlato anche Luisa Stagi al Seminario UDI: siamo sicure che essere molto scoperte equivalga a essere libere?

E a soldi come siamo messe?

Il gender pay gap(o differenza salariale) colpisce le sportive come molte altre donne. Nel 2020 Forbes ha fatto un’analisi dei 10 sportivi uomini più pagati al mondo e le 10 sportive donne corrispondenti.

La top ten maschile in media porta a casa 80 milioni di dollari l’anno (con picchi sopra i 100 milioni per Federer, Messi, Ronaldo). La top ten femminile si ferma in media a 13,5 milioni di dollari l’anno, con alcune tenniste (Naomi Osaka, Serena Williams) in cima alla classifica che non superano i 40 milioni.

Questione di interesse popolare?

La giustificazione comune offerta a questa situazione è che lo sport femminile non ha lo stesso appeal di quello maschile. Meno pubblico equivale a diritti televisivi meno costosi, sponsor meno prestigiosi e/o premi più bassi. Eppure perché “così è”, viene da chiedersi? 

Perché atlete come la genovese Paola Fraschini, pluricampionessa mondiale di pattini a rotelle, diventano brevemente note non per i meriti sportivi, ma perché coinvolte in un’esibizione musicale? Oppure per un reality o uno scandalo, passando altrimenti sotto silenzio? 

Per questo, con le Olimpiadi alle porte, vi invitiamo a seguire e a tifare per le azzurre e le altre atlete questa estate.

Ringraziamo Monaldi Miria del Circuito Cinema che ci ha invitato a partecipare a questa iniziativa. Speriamo sia la prima di molte occasioni per incontrare i ragazzi delle scuole genovesi e parlare di temi a noi cari.